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domenica 12 dicembre 2010

IL MANTRA DEL LEADER ELETTO DAL POPOLO

Si ripete in continuazione il mantra ossessivo del leader eletto dal popolo, argomentando dal fatto che il nome “Berlusconi” figurava nel logo della coalizione vincente alle elezioni del 2008. L’assunto che ne consegue, da parte dei partiti al governo, è che Silvio Berlusconi è l’unico soggetto legittimato alla guida dell’esecutivo, per cui qualsiasi altro governo che non fosse da lui presieduto sarebbe un tradimento della volontà popolare e un grave strappo alla democrazia.
Si tratta di un chiara applicazione di quella tecnica mistificatoria che Irving Lee ha definito “la menzogna organizzata”, e davvero sorprende che nessuno (o quasi) vada a denunciare il trucco fin troppo scoperto.
Premesso che non è affatto vero che nelle elezioni del 2008 Berlusconi abbia ottenuto il consenso della maggioranza degli italiani, ciò che solitamente si proclama come verità assoluta e incontestabile (di fatto al PDL è andato il 37,4 per cento dei voti e complessivamente il 46,8 per cento alla coalizione di centrodestra, a fronte del 53,2 per cento totalizzato dall’insieme delle liste  di opposizione, per cui la larga maggioranza di cui Berlusconi finora beneficiato in parlamento è semplicemente il frutto della legge elettorale “porcata”), va obiettivamente puntualizzato che il chiaro disposto della L. 21.12.2005 n.270 non consente l’interpretazione forzata del voto popolare sostenuta capziosamente dal centrodestra. L’articolo 52 di quella legge prevede infatti testualmente che “i partiti e i gruppi politici” eventualmente collegati fra loro in coalizione, con il deposito del loro programma elettorale “dichiarano il nome e il cognome della persona da loro indicata come capo della forza politica o della coalizione”, precisando peraltro che “restano salve le prerogative spettanti al Presidente della Repubblica previste dall’articolo 92, secondo comma, della Costituzione”.
Il deposito del nome collegato al programma elettorale non ha quindi altro scopo che l’indicazione del capo del partito o della coalizione, con preclusione di ogni altro effetto, in particolare quello di una designazione anticipata del futuro capo del governo, in conseguenza dell’espresso richiamo operato dalla legge alle prerogative del Presidente della Repubblica e alla norma costituzionale che le prevede.
Viene così ad essere riaffermato dalla stessa legge elettorale vigente il dato incontrovertibile del nostro ordinamento, avvalorato da una pluridecennale prassi costituzionale, che vede il ruolo di capo del governo, quale viene a determinarsi attraverso accordi definiti in sede parlamentare e quindi sottoposti al presidente della Repubblica in vista della sua decisione, come nettamente distinto e del tutto indipendente dalla leadership del partito o della coalizione vincente in esito alle elezioni.
Ben raramente infatti, nella nostra storia repubblicana, la direzione del governo risulta essere stata affidata al leader del partito o della coalizione di maggioranza. Ricordiamo che dal 1947, durante i governi De Gasperi, alla guida della DC si avvicendarono Attilio Piccioni e Giuseppe Cappi. Nei successivi decenni si affermò la regola consolidata per cui la presidenza del consiglio dei ministri veniva sistematicamente considerata alternativa alla leadership del partito di maggioranza. Nei governi cosiddetti di coalizione si verificò più volte che al vertice dell’esecutivo andassero personalità di partiti diversi da quello di maggioranza. Un caso particolare fu quello di Giovanni Goria, figura non di primissimo piano nel suo stesso partito, chiamato alla guida del governo nel 1987. Nei tempi più recenti, fra il 1998 e il 2001 si succedono a Palazzo Chigi le presidenze di D’Alema e Amato benché nel logo della coalizione di maggioranza fosse stato indicato il nome di Prodi. E a riprova di una prassi ininterrotta, nel 2008, dopo la caduta del governo Prodi, il presidente della Repubblica, prima di disporre lo scioglimento anticipato delle Camere, affida al senatore Marini un mandato esplorativo circa la possibilità di costituire un nuovo governo a termine per la modifica della legge elettorale.  
Ne consegue l’assoluta infondatezza, sul piano costituzionale e alla luce della consolidata esperienza democratica del nostro Paese, la pretesa che in caso di caduta dell’attuale governo non sia consentito esperire un tentativo volto alla formazione di un nuovo governo, sostenuto eventualmente anche da una nuova maggioranza, risultando inevitabile lo scioglimento delle Camere con immediato ricorso a nuove elezioni.
Per altro verso, la possibilità di un cambio di maggioranza in corso di legislatura è implicita nel disposto dell’art. 67 della Costituzione per cui “ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato”: ciò significa che il parlamentare è  libero di (nonché tenuto a) orientare le sue decisioni e le sue scelte in base a ciò che di volta in volta egli ritiene nell’interesse dei cittadini e non già in ottemperanza ad un vincolo di partito o in ragione dell’ appartenenza, definita una volta per tutte, a un determinato schieramento. E questo non costituisce una particolarità italiana ma è invece un principio base della democrazia parlamentare.  
In conclusione, la legge elettorale che prevede l’indicazione del nome del capo del partito o della coalizione nel logo che a questi si riferisce non intende né potrebbe modificare la Costituzione e le sue regole di base. Vero è che i proponenti della legge avevano posto nel progetto originario una formula per cui l’indicazione del nome nel logo veniva ad assumere il significato di una designazione a candidato premier, ma quel tentativo era dovuto rientrare per il fermo richiamo al rispetto dei principi costituzionali da parte del presidente Ciampi. Occorre ora opporsi con forza a quelli che cercano di far rientrare surrettiziamente dalla finestra ciò che non sono riusciti a far passare dalla porta.
Ugo Genesio
 

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