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lunedì 24 gennaio 2011

Il Maestro

Questa nota scritta dal giornalista Claudio Mercandino di "Repubblica" è dedicata ad Alfredo Schiavi (nella foto) nel giorno del suo ottantacinquesimo compleanno.

Le mani si muovono veloci e impercettibili, in una danza sospesa sopra un cassetto di legno diviso in tantissimi scomparti di diverse dimensioni. Le dita seguono un copione noto, spostandosi con esattezza da uno scomparto all’altro, silenziose e leggere, instancabili, precise. Con il loro movimento misterioso, che poco a poco riempie gli scomparti restituendo un ordine sistematico al disordine apparente della mescolanza, tradiscono un sapere che le guida come la mano guida la penna su un foglio.
Sembra quasi che scrivano, quelle dita. E infatti è proprio ciò che fanno. Scrivono alla rovescia, compiendo il piccolo miracolo impossibile a chi, dopo aver parlato, vorrebbe far tornare indietro le parole. Quelle dita prendono le frasi e, lettera per lettera, accarezzandole con i polpastrelli grigi, le riportano indietro, rimettendole in scatola. E scrivono alla rovescia non solo perché scompongono ogni riga e la restituiscono al suo alfabeto di piombo, dall’ultima lettera alla prima, ma anche perché manipolano lettere speciali, lettere al contrario. Sono caratteri tipografici, e la loro casa è la cassa tipografica: quel cassetto di legno che ogni giorno fa da palcoscenico silenzioso alla danza misteriosa delle mani del maestro.
Il maestro indossa un camice nero, ha gli occhi chiari, le labbra carnose da un angolo delle quali sale un filo di fumo della sigaretta, un’infinita pazienza e un forziere di segreti. Non si arrabbia mai e non alza mai la voce. Persino il principale, che tratta gli altri dipendenti con distacco e un po’ di sbrigativa autorità, con lui si fa rispettoso e attento, traducendo gli ordini in richieste di favori.
A un paio di metri dal maestro c’è un altro camice nero, nuovo, non ancora liso né deformato dall’uso ai gomiti e alle tasche, più piccolo e un po’ intimidito: il mio. È l’estate del 1977 e, approfittando delle vacanze e della raccomandazione di mio padre, per due mesi lavoro part time in una tipografia di Borgo Vittoria. Due mesi non sono tanti, tuttalpiù ti permettono di sbirciare un mondo sconosciuto da una porta socchiusa. Ma è il maestro a tenerla aperta e a mostrarmi dall’altra parte un piccolo universo affascinante.
Inizio dedicando ore alla pulizia dei blocchetti d’alluminio su cui si incollano i cliché fotografici: ogni blocchetto va strofinato energicamente, a lungo, ai limiti dell’anchilosi, su una superficie di cartone imbevuta di petrolio, fino a eliminare ogni traccia del nastro biadesivo che con il suo impercettibile spessore potrebbe alterare le stampe successive. Imparo che cosa sono i punti e le linee tipografiche, il corpo e la forza di un carattere, apprendo che il sostegno a squadra su cui si allineano i caratteri si chiama “vantaggio”, pulisco i pavimenti, rilego i fascicoli con la spillatrice meccanica. Un giorno vengo spedito alla taglierina, impressionante per precisione e potenza, che pare sempre sul punto di divorarti una mano. Vedo nascere una pagina attraverso l’assemblaggio delle righe prodotte alla linotype, delle immagini montate in negativo su quei famigerati blocchetti, degli spessori necessari per creare gli spazi, dei titoli composti a mano. Imparo a usare il tirabozze per stampare le prime pagine di prova, vedo trasformare quelle bozze in matrici offset che poi gireranno dentro grandi macchine che mangiano rotoli di carta e inchiostro denso di vari colori per restituire pagine di giornali, manifesti, dépliant, riviste, libretti e tutto ciò che d’altro si può stampare.
Il maestro mi porta un libro che racconta la storia della stampa, dagli incunaboli alle gigantesche rotative dei quotidiani, e mi sembra quasi un rito d’iniziazione. Leggo quelle pagine come fossero una bibbia, il libro segreto dei simboli di un mestiere. Lui mi insegna la distribuzione dei caratteri nella cassa tipografica, con la “A” quasi al centro e le altre lettere disseminate qua e là in una finta casualità: grazie a lui comincio anch’io a “scrivere al contrario”, smontando i titoli e rimettendo a dormire vocali e consonanti. Al contrario mi fa anche imparare a leggere: non da destra a sinistra, come normalmente ci si aspetterebbe con la scrittura bustrofedica, ma da sinistra a destra e dal basso in alto, con la pagina capovolta, come invece scoprirò (con una certa sorpresa) essere più pratico e veloce.
Il maestro mi manda in linotipia a consegnare le righe di piombo sbagliate e a ritirare quelle corrette, e lì resto affascinato a guardare quelle specie di macchine per scrivere dalla tastiera enorme, altissime, che ticchettano come una telescrivente accompagnata da un rumore di tramoggia, in cima alle quali si allineano i calchi dei caratteri e in fondo alle quali escono le righe di piombo ancora caldissimo dopo la fusione, capace di riempire l’aria con il suo odore caratteristico e indescrivibile di metallo morbido.
Il maestro riconosce alla prima distratta occhiata l’esatta misura di ogni spessore: un punto, due punti, mezza linea, due linee; ci vuole occhio, esercizio, abitudine, lui mi sembra un mago mentre io continuo a sbagliare; alla fine dei due mesi sarò fiero di azzeccarne la metà senza bisogno di confrontarli. Il maestro non perde mai la pazienza, neppure quando la pagina di piombo va in “baracca” spargendo righe e caratteri ovunque e costringendolo a rifare il lavoro e a rimettere tutto a posto con una legatura più stretta.
Il maestro sa insegnare, e lo fa soprattutto quando non parla. Dà l’esempio senza dare lezioni. Fa mille cose. Ed è giovanissimo. E infatti oggi, a 34 anni da quell’esperienza tra i banchi di una tipografia, se penso ai suoi entusiasmi e alle mie disillusioni, al suo fresco pragmatismo e alle mie stanche incertezze, mi sembra che il tempo sia passato solo per me. Non so se sono stato un buon allievo – non penso tanto al mestiere di tipografo, quanto al modello di persona che il maestro propone con il suo semplice esserci – ma quell’estate mi è davvero rimasta nel cuore come un dolce ricordo. Un ricordo che oggi, mentre Alfredo si accinge a spegnere 85 candeline, gli restituisco sperando di strappargli un sorriso.
Claudio Mercandino

sabato 8 gennaio 2011

RELIGIONE E RIFLESSIONE


Non me ne vogliano gli amici e compagni credenti ( a qualsiasi religione) se affermo il mio purtroppo progressivo convincimento che avesse ragione il nostro caro filosofo Carl Marx quando affermava che le religioni sono “l’oppio dei popoli” . Mi riferisco ovviamente in maniera più puntuale al fanatismo religioso ma ciò non toglie che comunque quando domina l’irrazionalità nel pensiero e nell’educazione ( ed in forma più o meno accentuata tutte le religioni sono irrazionali) il percorso verso il fondamentalismo è l’intransigenza è comunque tracciato e purtroppo anche gli enormi comportamenti virtuosi che molti credenti praticano, non riescono a ridurne lo scandaloso dilagare.
Lo dice da millenni la storia ,lo conferma sempre di più il presente con le carneficine, sempre dei più deboli, oramai quotidiane che stanno divenendo una guerra continua sempre in nome di qualche Dio.
II guaio peggiore è che anche nei popoli più acculturati è sempre la religione che viene utilizzata come mantello per oscurare e creare alibi alla malvagità del potere, comunque motivato, e non nascondiamoci il fatto che invocando i vari dei , anche quelli dei cristiani , sono stati compiuti i peggiori misfatti dell’umanità, dalle crociate al “ got mitt uns”.
Quindi sempre di più l’esperienza di vita mi fa apprezzare la visione filosofica di Marx sulla realtà della condizione umana , anche su quella data per definitivamente sconfitta con la caduta dei regimi socialisti che proprio perche si sono trasformati in regimi avevano man mano perso il vero significato dettato dalla filosofia marxiana della quale mi piace ricordare una sua frase emblematica che sposo totalmente: “Auspico una società nella quale il libero sviluppo del singolo è il presupposto per il libero sviluppo di tutti”. Quando poi in quelle società nate da giuste rivoluzioni è avvenuto esattamente il contrario, sacrificando totalmente la libertà dei singoli ad una visione totalizzante della collettività , si sono visti i risultati.
Ma che dire della contrapposta società capitalistica oggi apparentemente trionfante? Quali drammatici prezzi fa pagare a moltissimi a favore di pochissimi ?
Ma allora quale è la più consona soluzione per organizzare una comunità migliore alla quale rivolgere i nostri sforzi morali, culturali, materiali?
Francamente non so dare una risposta certa, così come mi trovo purtroppo sempre più spesso a dubitare sull’interpretazione che si dà alla Democrazia che oramai qui da noi è interpretata dai poteri economico, politico e burocratico come mero permissivismo di proprio comodo.
E’ giusto che il voto di un mafioso o di un evasore fiscale conti come quello di un giudice?
Certo anche Churchill diceva che la democrazia è un pessimo sistema di governo ma non ne conosceva uno migliore, ma possibile che non si possa mettere al riparo da tutte le degenerazioni cui assistiamo continuamente l’espressione della corretta volontà dei cittadini?
Concludo qui questa libera riflessione che certamente susciterà un vespaio nel nostro debole PD, credo che nessuno sia veramente in grado di dare risposte operabili al problema se non quelle di lavorare culturalmente per migliorare i comportamenti dei cittadini tutti, ma permettetemi di affermare che per ottenere qualche progresso oltre alla “carota” si dovrebbe trovare un modo più efficiente e produttivo anche per l’uso del “ bastone” per i furbastri ! Alrimenti come da sempre vinceranno loro! 
S. Leonardo.